Conferenza del Card. Siri: “L’anima sacerdotale di Mons. Canovai”

giuseppe-siriIl 2 marzo 1951 l’Arcivescovo di Genova, Mons. Giuseppe Siri (poi Cardinale), amico di don Giuseppe Canovai, tenne una splendida conferenza nell’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana di Roma in commemorazione proprio del Servo di Dio Mons. Canovai, di cui vi proponiamo la lettura di un estratto.

“Se vivesse ancora, Monsignor Giuseppe Canovai, questo caro alunno dell’Alma Mater e del Capranica, si appresterebbe a celebrare il ventesimo anniversario della Sua Ordinazione Sacerdotale. Eppure da più che otto anni non è di questo mondo. Ciò è sufficiente a ricordare che il Suo passaggio è stato breve. Forse la Provvidenza lo fermò presto perché, illuminato dalla morte, giungesse in tempo ad edificare chi doveva, come doveva e compisse così la Sua vera missione.

Perché l’ultima Sua missione non fu – così io fermamente penso – quella d’aver fatto l’Uditore alla Nunziatura di Buenos Aires. E forse è per questo che noi ci troviamo qui stasera.

Le caratteristiche di Monsignor Canovai sono: il tipo, la particolare intelligenza, la incredibile penitenza, la completa soprannaturalità. Aveva naturale l’esuberante bisogno di comunicarsi; ciò l’indusse a confidarsi con assiduità e metodo allo scritto.

Il diario, le lettere, gli scritti sparsi, permettono di accompagnarlo interiormente e direttamente, in modo da dare a quelli stessi che Gli furono compagni di studio o di lavoro, amici, il mezzo per interpretare quanto videro e sentirono. Lo fanno oggi colla commossa e – direi trasognata riverenza di chi quasi non può credere di essersi talvolta accompagnato a tanta altezza.

Parlo delle caratteristiche, perché esse si uniscono in un modo chiaro e logico e formano il quadro di un’anima pienamente sacerdotale. Non voglio prevenire e pertanto andiamo con ordine.

Il Tipo. Era calore, fuoco, sensibilità. Sveltissimo, pronto, attivo. La generosità dell’animo suo lo rendeva persino semplice. Era quella semplicità che fa il controluce migliore alle vere intelligenze. Così era di getto, sempre in movimento, schietto.

Il Suo parlare rifletteva tutto questo: avvolgeva, facilitava, cavava d’imbarazzo, tanto era immediato. L’intuizione era rapida e sicura: se fosse stato meno generoso e meno disinteressato avrebbe potuto essere comodamente e decorosamente quello che può chiamarsi “un uomo furbo”. Invece rimase semplice, senza cessare di essere saggio. La prontezza e la intuizione rendevano sapida ed incisiva la sua parlata romanesca; egli poi parlava con tutto il contegno e, così, la Sua gioia e la Sua cordialità parevano rasentare la scanzonatura. Molte volte, anzi pressoché sempre, coprivano il Suo grande segreto di immolazione. Il Suo sentimento era turgido, comunicativo; si commoveva; le idee e le cose Gli entravano nell’animo svegliandone ogni capacità emotiva. Quelle simpatiche esplosioni, magari rumorose, parevano inseparabili dalla sua figura.

Per questo Suo naturale vibratile, le esperienze, i casi, i fatti si volgevano facilmente in sofferenza; l’amicizia in responsabilità di dono; i frutti del ministero in spaventato confronto con l’ideale altissimo che sempre Gli stava innazi; le persone care come quelle alle quali – secondo lui – avrebbe potuto dare di più; la gioia in richiamo di indegnità di fronte all’amore di Dio.

Così il suo stesso temperamento Gli donò la prima e costante penitenza.

Era fatto per ardere tutto.

Era un cero per l’altare e doveva consumare la materia, per alimentare la fiamma.

Lo stesso temperamento lo poteva rendere impaziente, insofferente, impulsivo, acre.

Che sia invece diventato penitenza è il segno di un lavorio interiore che conobbe il dominio, l’umiltà e l’amore senza misura.

Dio l’aveva fatto in modo che tutte le cose in fondo acquistassero per Lui l’occasione di una immolazione. Gli morì prima il padre, poi la mamma adorata. Aveva desiderato entrare nella Compagnia di Gesù e non poté; sognò il ministero e dovette in parte rinunciarvi per la vita di ufficio in Congregazione; vagheggiò concentrarsi negli studi prediletti di filosofia e dovette accontentarsi dei ritagli; paventò la carriera diplomatica e questa costituì l’ultima parte della Sua via.

Lo si vide correre per Roma a velocità pazzesche colla Sua macchinetta per arrivare a tutto. Tenne corsi di Religione all’Istituto Maria Adelaide. Alle pensionate delle Suore Orsoline, al Cenacolo, a Tor di Specchi, a Via di Piè di Marmo, alla Fuci… Predicò fino ad esaurirsi, non si negò al Confessionale, alla Direzione delle anime, di molte occupandosi per indirizzarle alla più alta perfezione, s’occupò di chiunque gli capitasse, non gli bastò Roma e fu per l’Italia; tutto come se fosse un piccolo scherzo senza darsi nessuna aria e piuttosto coll’aria di chi pagasse – e malamente – un debito.

La esuberanza e sensibilità del Suo temperamento non lo lasciò mai in pace, non solo perché gli donò insofferenze, dolori e più gli fece sentire i vuoti, ma perché non Gli lasciò godere in sostanza mai uno di quei periodi di tempo in cui un uomo non pensa a nulla o pensa solamente a se stesso. Ma quella esuberanza e sensibilità, senza un sanguinoso sacrificio e senza potenza di virtù, Gli avrebbe dato ben altro volto morale. (…)”