“Ricordando Mons. Canovai”, da L’Osservatore Romano, 11 novembre 1943

Proponiamo la lettura di un articolo di giornale dedicato a don Giuseppe Canovai pubblicato l’11 novembre 1943 sull’Osservatore Romano in occasione del primo anniversario della sua chiamata al cielo. 

 

SantaMessa_Canovai13Un anno fa, l’11 novembre, a Buenos Aires, spirava in Dio Mons. Giuseppe Canovai, Uditore della Nunziatura Apostolica. Quella morte, sopraggiunta quasi improvvisa dopo brevissimo male, fu dolore vasto, profondo, intensissimo della capitale argentina: e fu dolore vasto, profondo, intensissimo in Roma. Di quel dolore vibrarono e tuttora vibrano, mestamente se pur serenamente, numerosissime anime, nel Sud America e in Italia.

Che questo era il dono magnifico fatto da Dio a D. Giuseppe Canovai: riuscire appena lo si conosceva, carissimo; essere capace di attrarre, immediatamente con potenza irresistibile di semplicità e di umiltà; saper dare, in comunicazione di entusiasmo e di fiducia, la testimonianza appassionata di un fervore apostolico personalissimo e santo.

Quanti, e son molti, hanno fato diretta esperienza della sua amicizia vivace, della sua intelligenza acuta e originale, del suo zelo discreto e pur, se necessario, travolgente, non si stupirono, di certo, nell’udire dell’importanza e commozione con cui in Buenos Aires furono rese le onoranze funebri a Mons. Canovai: dalle più alte autorità ecclesiastiche e civili, ai ceti intellettuali più insigni, al clero ai religiosi, sino alle persone più modeste.

Invece molti si chiederanno forse quale sia stata la ragione segreta di quel trionfo reso alla salma di Mons. Canovai. Ma è difficile, nella molteplicità degli elementi soprannaturali con cui il Signore arricchisce e feconda l’opera dei suoi eletti, rintracciare il motivo più efficace dell’azione conquistatrice di un’anima su altre anime, di un cuore sul altri cuori: e anche per Mons. Canovai dovremmo attendere sino all’ultimo giorno per conoscere le vie misteriose della Provvidenza, che lo faceva, in meno di tre anni di permanenza, venerato da tutto il cattolicesimo argentino e da quello Santiago del Cile, dove egli fu durante sei mesi Incaricato d’Affari. Se, però è lecito di cogliere oggi qualche luce da quella vivida luminosità che la Grazia effuse in lui, piace soffermarsi a ricordare e a valutare quello che fu l’eroismo spirituale di Mons. Canovai nel piegarsi al cenno che gli additò, inaspettatamente, Buenos Aires come il nuovo campo ove trasferire, mutato nella forma ed identico nell’ispirazione, il suo apostolato romano.

Mons. Canovai poteva dirsi a più titoli romano. Romano di famiglia, di nascita; di studi, di formazione ecclesiastica, di entusiastica aderenza a tutto ciò che si richiamava alla romanità così classica come cristiana, egli era giunto a fissare in Roma la mirabile vitalità del suo sacerdozio, attraverso una fioritura rigogliosissima di attività apostoliche. Soprattutto la direzione delle anime, prevalentemente giovanili, che egli guidava nella chiarificazione interiore della Confessione e degli Esercizi, e il magistero filosofico e teologico, che egli dispensava con luminosa fermezza di verità e con accogliente condiscendenza ad ogni sforzo moderno che gli sembrasse sincero e leale, costituivano le due espressioni più vive del suo ancoraggio spirituale in Roma. Quando poi egli si muoveva da Roma per altre città d’Italia, a distribuirvi uguali ricchezze di direzione spirituale e di magistero come, ad esempio, nei famosi suoi corsi a professori di Università a Villa Maria (presso Genova) se ne muoveva lieto di far palpitare anche altrove l’impeto dell’entusiasmo soprannaturale, in Roma attinto e vivificato, e vi tornava con la gioia di ricondurre, quasi testimonianza di nuovi trionfi in Roma cristiana, la commozione di vittorie su intelligenze e su cuori che, per l’influsso della sua parola avevano consentito a Cristo Signore.

Intorno a lui si spiegava, perciò, in Roma un campo spirituale che egli lavorava instancabilmente, generosissimamente, sorridendo a tutto ed a tutti, e prodigandosi oltre lo stesso limite delle sue forze, provate e forse logore anzi tempo. Basterebbe pensare alla rispondenza vivace, entusiastica dei giovani universitari, per comprendere la bellezza dell’apostolato di Mons. Canovai.

Ad un tratto, a lui, apprezzatissimo Aiutante di Studio nella S. Congregazione dei Seminari e delle Università, venne chiesto di lasciare Roma per la Nunziatura Apostolica in Argentina. Mons. Canovai – chi lo scrive, lo sa – fremette interiormente, fino allo spasimo, tanta era la novità della via che gli veniva indicata e la diversità da quella che egli aveva pregato quotidianamente il Signore di lasciargli percorrere in terra fino al suo ultimo giorno. Ma egli seppe vivere, in quelle ore di intimissima prova, il divino esempio e, ripetendo “Non mea, sed tua voluntas fiat”, incitò il divino Crocifisso : “Oblatus est qum Ipse voluit”. E lasciò Roma con un grande pianto nel cuore, ma con nel cuore un’illuminata certezza, che gli cantava, dall’anima, nelle parole soprannaturali di saluto, sino allo sguardo trepido del lontanante commiato.

Così, soltanto così, si spiega come egli abbia potuto in Buenos Aires – mentre vi si iniziava, paterno maestro il suo saggio e affabile Nunzio, alle quotidiane, faticose esperienze della vita diplomatica – costituirsi immediatamente centro di molteplici iniziative culturali e religiose, comunicando a quanti , soprattutto docenti e giovani, gli si serravano intorno, il salutare congio del suo entusiasmo cristiano. Fattosi presto padrone della lingua spagnola, così da poter in quella non solamente predicare, dinanzi a piccolo cerchio di persone, ma parlare in cospetto di assemblee imponenti ed elettissime, diffuse per radio a tutta l’Argentina, egli si fece largamente presente, per quanto glielo consentiva il freno del suo delicatissimo ufficio, nelle manifestazioni più significative del cattolicesimo argentino e, quando fu a Santiago di quello cileno.

Ma l’animo suo restava quale si era mosso da Roma: fatto di soprannaturale distacco. E scriveva: “Il pensiero di restare isolato è penoso, penosissimo, quel pensiero mi fa l’effetto di una seconda partenza. Ma se il buon Dio lo disponesse, Egli darebbe forza e confronto copioso: e poi guai a chi pone misura! E se volesse un olocausto più intero ancora? Nessuno sa l’avvenire: ma per noi l’avvenire è Egli soltanto: Egli mi dona serenità ed energie nuove, cui non avrei mai pensato. Quando una circostanza qualunque mi rinnova qui il ricordo del carattere della mia missione, resto sorpreso…ho piuttosto l’”habitus mentis” di un “emigrato”; l’emigrato va lontano per lavorare (intendo l’emigrante nostro, l’emigrante povero) per la sua casa: io ho fatto lo stesso. Sono andato lontano a lavorare per la grande Casa di Dio, che è la Santa Chiesa: e più grande è il gruzzolo, più bella è la gioia di soffrire. E se il buon Dio vuole la separazione che Egli la consumi!”.

Donde attingeva tanta capacità di offerta? Dalla partecipazione anelante all’offerta di Cristo. Che scriveva ancora: “Torno ora dalla cerimonia del Giovedì Santo…Quante stonature…ho faticato più per questa Messa che per un corso [...] la gioia di ricevere anche oggi il Signore. Dopo la Comunione era un faccendio intorno all’altare: purificare Pissidi, preparare il calice del Sepolcro. Ho tratto il pollice dalla Pisside tutto coperto di piccoli frammenti candidi…polvere d’oro sulle mie povere mani di terra. Vedevo le mani sollecite dei dodici che raccoglievano i frammenti del pane del miracolo, che non devono perire giammai…fragmenta, ne pereant…i frammenti, che non periscano!…e le mani virginee di Giovanni protese sulla mensa dell’ultima cena ad accogliere il corpo di Cristo fatto pane per la prima volta…recens panis…. Poi abbiamo compiuto la denudatio altarium, io leggevo il Salmo, il diacono toglieva dall’altare tutto quello che aveva servito al grande Sacrificio, come Maddalena, Giovanni, Maria, prima di allontanarsi dal Sepolcro sostavano sotto la Croce a raccogliere quel che restava del Sacrificio, le bende, qualche pezzuola con cui avevano toccato il corpo del Signore deposto dalla Croce e che erano rimaste lì ai piedi del tronco scuro e insanguinato; che preziose reliquie! Poi ci siamo avviati alla sacristia: tenevo la morte di Cristo in cuore, ma ero esultante, che la sua morte si trasformava in vita e mi zampillava inesauribile nell’anima il versetto del salmo et anima mea illi vivet”.

Che meraviglia, dunque, che la sepoltura di Mons. Canovai abbia palesato l’emozione di tutta una folla che lo aveva visto generosissimo sacerdote di Cristo ed aveva saputo come egli avesse reso la propria anima a Dio in supremo olocausto? Le tragiche vicende che stiamo vivendo e che rendono quasi estranei l’uno all’altro i continenti, pur tanto reciprocamente ostili, ancora non ci hanno permesso di saper tutto quello che ameremmo sapere degli ultimi giorni di Mons. Canovai. Ma quel che ne scrisse, il settimo giorno dalla sua morte, l’accoratissimo Nunzio, basta per convincerci che la morte di Mons. Canovai è stata la testimonianza più ardente della sua fede, della sua speranza, della sua carità.

“Tutti coloro che avvicinarono Monsignor Canovai durante la sua breve malattia hanno riportato una salutare e profonda impressione della serenità meravigliosa con la quale ha appreso la morte, ho la persuasione che la presentisse da tempo – così pure il suo confessore e che venisse preparandosi, benché la sua vita di sacerdote esemplare fosse una continua preparazione alla morte, che perciò a detta di tutti coloro che l’hanno assistito, fu quella di un santo”.

Ricordarlo, a un anno dal suo transito beato, è dire non tanto il mestissimo rimpianto di lui, quanto la consolata fiducia nelle preghiere di lui!